GUSTAV MAHLER
GUSTAV MAHLER
(Kaliŝte, 1860 – Vienna, 1911)
“Il pubblico che ascoltava le esecuzioni di Mahler rifiutava di riconoscersi in quelle sinfonie grottesche. Era colpito infatti dall’eccesso, dalla singolarità stravagante, dall’en-fasi, dall’ossessiva lunghezza di quella musica; e non riusciva a riconoscere in quelle carat-teristiche i sintomi della propria decadenza e del proprio crollo. Quel pubblico ascoltava quanto appariva soltanto come una vocazione della musica austro-germanica, riepilogata in termini ironici o distorti – e tutto ciò allora veniva considerato vergognoso eclettismo. Si ascoltavano marce senza fine, brutali, maniache – senza avvertire gli emblemi della ditta-tura, la svastica (ciascuno aggiunga ciò che vuole in tal senso) sulle uniformi degli indivi-dui impegnati in tali marce. Si ascoltavano possenti corali, irresistibili inni innalzati dagli ottoni – senza percepire che essi già barcollavano verso l’abisso del deterioramento to-nale.” Chi scrive questo, nel 1967, non è uno storico della musica di una qualunque tendenza: è l’uomo che più di tutti ha fatto con le parole e le opere per restituire Mahler alla storia della cultura europea: Leonard Bernstein. Gliene siamo grati, non solo per quello che ha fatto, ma per la chiarezza sintetica con cui ha espresso questo suo giudizio. Infatti, chi ancor oggi vuol farsi un’idea della vita e del travaglio dell’opera di Mahler nel XX secolo finisce per imbattersi in una bibliografia specialistica che invece di chiarire confonde ostinatamente le idee. Dalle oscure crittografie di Adorno alle prolusioni non meno labirintiche del Duse, dalle pagine agglutinate di Quirino Principe alle digressioni disco-grafiche di Giuseppe Pugliese, quello che ci si trova davanti è più un’esibizione di stampo teoretico-filosofico che non un tentativo chiaro e onesto di collocare questo musicista nel suo tempo, e soprattutto di considerarne l’opera per quello che è: un contributo appas-sionato ma piuttosto confuso allo sviluppo della musica tra Otto e Novecento. Lo stesso Bernstein, dall’interno della trincea (e non dalle comode postazioni di retrovia) incorre da subito nell’errore di caricare la musica di Mahler di significati profetici ed extramusicali che, come tutto ciò che è profetico, lo è in genere a posteriori. Nessuno infatti, nell’Austria felix di fine Ottocento, presagisce, seppure oscuramente, la dissoluzione dell’impero asbur-gico; nessuno sente il lezzo incombente di dieci milioni di morti sui fronti della Grande Guerra; e meno che mai nessuno sospetta che dietro un possibile ometto coi baffi ridicoli si potrà celare il protagonista dei più giganteschi sacrifici umani della storia. A mio giudizio, questa pretesa della profeticità si Mahler è solo una collocazione di comodo, e delle peg-giori. Non c’è infatti documento che non attesti, in qualunque epoca, il senso di decadenza che una civiltà avverte quasi costantemente. A rileggere le opere dei memorialisti di qua-lunque secolo è questo che balza agli occhi, sempre, anche nei periodi considerati come età dell’oro: storicamente ognuno, massimamente l’artista, dalla ristretta angolazione dei suoi anni fiuta decadenza, epoche giunte alla fine, angoscia del futuro. Lo fa Tacito nel periodo aureo degli Antonini come Boezio in quello feroce di Teodorico, Leonardo nel cuore del Rinascimento e Laclos sui bordi dell’Antico regime. Per cui, questa tendenza evangelica a fare di Mahler un Cristo del pentagramma, profeta dell’ecatombe che precipita, non solo non mi trova d’accordo, ma mi trova, una volta di più, fieramente contrario. Non dimen-tichiamo infatti che il gotha culturale tedesco (Mann ed Hesse in testa) alle armate austroungariche e prussiane che si prestavano alla politica aggressiva degli Asburgo e de-gli Hohenzollern diedero e anima e corpo, in piena fregola patriottica, senza denunciare il mostruoso che di fatto cancellava dalla faccia della terra milioni di uomini. In galera, per opporsi alla Grande Guerra, ci andò solo un filosofo: Bertrand Russel, e in Inghilterra! Mahler, dunque, tra il 1888 e il 1911 non annuncia per nulla e tantomeno immagina la Grande Berta, i gas mortali o il passo dell’oca delle SS di Hitler: vive solo il disagio di tutte le giovani generazioni che vogliono far tabula rasa di quanto le precedenti hanno realizzato, e lo fa caoticamente, velleitariamente, portando semplicemente alle estreme conseguenze la poetica wagneriana e affidando alla Sinfonia il compito orfico di registrare e riassumere nientemeno che il travaglio della storia e dell’umanità. Tutto qui. Per cui, nessuna idealizzazione di stampo soteriologico. E veniamo ai fatti discografici. Senza gli evangelisti (Mengelberg, Walter, Scherchen, Mitropoulos) difficilmente il messianesimo di Mahler sarebbe arrivato sino a noi. Le prime edizioni discografiche delle sinfonie mahleriane sono comunque queste: Sinfonia n. 1 (1941, Mitropoulos); Sinfonia n. 2 (1924, Fried); Sinfonia n. 3 (1952, Adler); Sinfonia n. 4 (1939, Mengelberg); Sinfonia n. 5 (1947, Walter); Sinfonia n. 6 (1953, Adler); Sinfonia n. 7 (1953, Scherchen e Rosbaud); Sinfonia n. 8 (1952, Scherchen); Sinfonia n. 9 (1938, Walter); Adagio della Sinfonia n. 10 (1952, Scherchen). Come si vede, in raffronto ai deserti discografici di tanti operisti italiani e dello stesso Liszt, Mahler non era per nulla stato dimenticato. Forse non aveva il posto che gli spettava nella vita concertistica, ma chi avesse voluto ascoltare la sua produzione entro il 1953 avrebbe avuto a disposizione tutti i dischi per farlo, tenendo conto che dopo quelle prime versioni sopra citate, altre ne erano seguite, per esempio la Sinfonia n. 2, che dopo l’ectoplasmatica versione di Oskar Fried del 1924 era apparsa nella versione firmata da Ormandy nel 1935, seguita poi da quella di Klemperer nel 1951. Il tutto tra i dieci e i quarant’anni dalla morte di Mahler, esattamente come accadde almeno a metà della produzione di Puccini, e per tacere di infiniti altri. Vediamo però quello che è necessario ascoltare di questo compositore, tenendo presente che l’attuale discografia mahleriana tracima in modo quasi preoccupante. Infatti, dopo il primo impulso degli anni Cinquanta, è venuta un’autentica alluvione di registrazioni, con una serie di integrali sinfoniche da rivaleggiare con quelle di Beethoven. Ma basta molto meno.
Sinfonia n. 1 Orchestra Filarmonica di Londra Direttore: Hermann Scherchen (Westminster, 1954)
Columbia Symphony Orchestra Direttore: Bruno Walter (CBS-SONY, 1961)
Nacque, la Prima Sinfonia, come un Poema Sinfonico, col titolo di Titano e sulla falsa-riga di un romanzo oggi dimenticato di Jean Paul del 1797. Composta tra il 1884 e il 1888, quindi tra i ventiquattro e i ventott’anni, e rimaneggiata nel 1896 fino alla soppressione del secondo movimento, quel Blumine (Fiorellino) che qualche edizione ha poi recuperato negli ultimi decenni, la Prima è stata una delle poche a girare il mondo proprio grazie a Bruno Walter, di cui ci restano testimonianze dal vivo già nel 1939 alla NBC, con l’orche-stra di Toscanini. Il fatto di indicare Walter come interprete di riferimento per questa straordinaria composizione non è un omaggio all’opera di apostolato del direttore berlinese nei confronti dell’antico maestro e amico: tutt’altro. Solo che l’edizione del 1961 è letteralmente sublime per quel concorso di fattori orchestrali basati su leggerezza, intensità narrativa, colorismo timbrico, coesione armonica e architettonica, che fanno del Walter di quegli ultimi anni un prodigio interpretativo, esattamente come accade con Mozart, Schubert e Brahms. A seguire, soprattutto nelle edizioni di Seconda e Nona Sinfonia, questo prodigio si ripeterà solo in parte. Una sorta di pudore morale, vorrei dire di minimalismo emotivo, porterà Walter ad abbassare notevolmente la temperatura sentimentale di queste composizioni che di tale temperatura invece vivono. Nella Prima no, nella Prima vi esplode il suo umanesimo integrale ormai consacrato alla malinconia dalla vecchiaia, un umane-simo circonfuso anche di tenerezza, abbandono, e a una specie di mistero raddolcito dalla sottolineatura delle frasi più toccanti e sentimentali. Poi un fraseggio largo, solenne, che apre e sostiene un mondo fatto di molteplici particolari, di intrecci timbrici ammalianti: una calligrafia, in definitiva, per nulla tragica, qualcosa di molto simile al mondo della Pastorale beethoveniana. Siamo insomma tra le pagine di un libro di memorie fatto saggio dagli anni. E’ come se in Walter (ma lo era nel Mahler ventenne?) tutto, rancore, ansia, odio, fosse spento, stemperato dal ricordo che ogni cosa candisce e perdona. Può sembrare riduttivo, questo approccio, e forse lo è: ma, come detto, è sublime. La Prima poi – quasi come tutte le altre Sinfonie mahleriane – è un film girato in tre o quattro episodi per nulla connessi tra di loro: anzi, spesso contrastanti. Impossibile, aldilà dei rapporti tonali, collegare infatti le atmosfere dei quattro movimenti di questa Prima Sinfonia: il senso panico del primo tempo con la desolazione lancinante del terzo e con i conflitti irrisolti dell’ultimo. Nel quale ultimo tempo Bruno Walter conferisce alla grandiosa lotta commes-sagli da Mahler un senso quasi ariostesco dell’epica, creando una tensione lirica continua che si aggruma nei potenti assieme e si scioglie miracolosamente, oserei dire liquidamente, nelle stasi meditative che conducono al torreggiante finale. Scherchen, musicista insigne a cui – per via dell’assidua frequentazione del repertorio a lui contemporaneo – si volle agganciare l’etichetta di modernista a oltranza, lo si è quasi sempre additato come interprete mahleriano che guarda al futuro. Sono etichette critiche che un ascolto disincantato rendono quantomeno cavillose. Il mondo che Scherchen evoca attraverso la Prima è soprattutto quello che più si affida alle indicazioni agogiche del-l’autore, arrivando quasi a pietrificare in un’aura senza tempo l’universo espressivo di questo lavoro. Uno per tutti, l’incipit, a cui Walter impone quasi uno sbocco acquatico di una primavera eterna, mentre Scherchen raggela col moto cosmico di astri spenti e fatti ghiaccio nel nero di notti siderali. Mi rendo conto che non è che una metafora, ma è quanto si vede ascoltando. Una versione gelida, dunque, implacabilmente mitica nel suo proce-dere rispettando scrupolosamente l’indicazione mahleriana di “Sempre molto comodo. Non affrettarsi”. Ed è quel “non affrettarsi”, quel mantenere lo stesso passo pur nel-l’urgenza di giungere il termine, che cambia radicalmente l’immagine di quest’opera, tra-sfigurandola quasi nella dimostrazione matematica di un moto ciclico privo di ogni va-lenza riconducibile a ciò che generalmente intendiamo con divenire. L’atemporalità del-l’universo. E se qualcuno pensa che sia una mia trasfigurazione fantastica ascolti questa rivoluzionaria e inascoltata edizione Westminster del 1954. Non potrà che convenire con i miei deliri.
Sinfonia n. 2 “Resurrezione” Coertse, West Coro dell’Opera di Stato di Vienna Orchestra Filarmonica di Vienna Direttore: Hermann Scherchen (Westminster, 1958)
Armstrong, Baker Coro del Festival di Edimburgo Orchestra Sinfonica di Londra Direttore: Leonard Bernstein (CBS-SONY, 1974)
Il minutaggio di queste due leggendarie interpretazioni è il seguente: Scherchen, 93’30”; Bernstein, 88’53”. In genere Scherchen non è direttore che dilata per principio i tempi e Bernstein non è direttore “veloce” per precostituzione estetica. Klemperer, sia nell’edizione Vox che in quella EMI, rimane entro i 79 minuti, e Klemperer è quasi sempre garante certificato di dimensioni titaniche. Quasi un quarto d’ora in più tra Scherchen e Klemperer significa pur qualcosa in termini di prospettiva interpretativa. Ma cosa? Siamo a Mahler, non al Beethoven del 1805, e l’orchestra mahleriana nella Seconda Sinfonia ha un organico gigantesco, che soprattutto nei due enormi movimenti estremi, il primo e il quin-to – gli altri tre, pur nella loro autonomia, fanno da raccordo – genera una progressione fonica che attinge il senso dell’apocalittico. Siamo alle grandi affermazioni di una gio-vinezza intatta, di un’energia straordinariamente fertile, di velleitarie affermazioni fideisti-che (il Totenfeier, ossia il Rito funebre dell’Allegro maestoso e la Resurrezione, l’Auferste-hung dell’ultimo tempo offrono in controluce il profilo messianico del Mahler trentenne) un decennio dopo la redenzione teologica di Parsifal. Mahler però non ha ancora il con-trollo del proprio genio come il Wagner settantenne con la sua ultima creatura, e sul palinsesto di una Sinfonia-Cantata di dimensioni vediche opera in modo da stiparci di tutto: unisoni annichilenti, articolati assoli strumentali, motivi di danza, garbati incisi cameristici, intensi Lieder con orchestra, schianti preistorici, evoluzioni dinamiche che tolgono il fiato, corali che, strato per strato, salgono verso le cime più alte dell’espressione sonora: la Sinfonia come il Mondo. Non è pensabile descrivere questo lavoro in termini letterari e nemmeno cinematografici: più che un grande affresco è l’oscura e abbagliante sala di un museo nel quale convivono quadri d’ambiente con volte michelangiolesche. Retorico, enfatico, estremo, ridondante, barocco. Gli aggettivi, sia in termini laudativi che redarguenti, si sono sprecati a proposito della Seconda in particolare e di Mahler in gene-rale. Sta di fatto che la Resurrezione rimane tra i grandi capolavori dell’ultimo Ottocento, e il successo che le arride da almeno mezzo secolo non solo non tarda a diminuire: aumenta, e parla una lingua che tutti riconoscono come la loro in ogni parte del mondo. Per quanto le registrazioni della Seconda siano ormai aldilà della cinquantina, le due che ho preso a modello restano inattaccabili e paradigmatiche per comprendere questo monstre sinfonico. Come detto, Scherchen sfora di quasi 15 minuti sul tempo medio stampato in partitura. Ma non hai mai l’idea che miri gratuitamente alla dilatazione: anzi, la sensazione è quella di un ritmo spesso incalzate, mai incagliato. Il trucco (lo chiamo così, ma si tratta di un’esigenza precisa) sta nelle pause e nell’attenzione al dettaglio, che Scher-chen sviscera e denuda spietatamente, estrapolandolo quasi e mettendocelo sotto gli occhi con morbosa apprensione. L’impressione d’insieme – come per la Prima – è quella di un viaggio cosmico, dove i 94 minuti sono secoli, o innumerevoli vite, dove i movimenti degli astri sono regolati da un dio infero di spietata coerenza, e dove tutto è conseguente, sta-bilito ab aeterno. E’ un’interpretazione che non ci apre i portali, che si serra dietro mura enormi, esattamente come le strutture tolemaiche della Commedia dantesca. Credo che chiunque ami Mahler e la musica non possa prescindere da questo monumento dell’arte discografica del secolo scorso. Qui, aggiungere parola a parola è solo un vezzo retorico. Aperta, al contrario, anzi, spalancata è la seconda, immensa lettura di Leonard Bernstein, frutto di una meditazione ventennale. Scrive, con esattezza che controfirmo, Giuseppe Pugliese a proposito di questa registrazione: “La poetica mahleriana di Bern-stein è interamente attraversata da un’angoscia esistenziale, che non lo abbandona un istante. Tutti i dubbi, tutti gli interrogativi sollevati dalla musica di Mahler, gli si pongono innanzi, e a tutti cerca di dare una spiegazione, una risposta. Per questo forse, anche le lacerazioni, i contrasti, i paradossi, del mondo di Mahler, vengono proiettati, ingigantiti ed esasperati nelle sue interpretazioni. (Giuseppe Pugliese: Gustav Mahler, Nuove Edizioni, 1976). Con questi presupposti Bernstein affronta la Seconda come Vincenzo Monti affronta il testo dell’Iliade: la trasfigura e la fa sua: nulla aggiunge, nulla corregge, ma tutto interpreta a livello esclusivamente emotivo e drammatico, evocando ogni possibile atmosfera, esal-tando ogni pausa, dando corpo a ogni timbro, sbrogliando ogni matassa gravida, ingra-vidando ogni cumulo che non gli pare di pregnanti dimensioni, attenendosi con scrupolo insistito a quelle indicazioni agogiche di Mahler che invocano reiteratamente l’impeto selvaggio, quasi incontrollato, senza argini e misure. Registrata a Londra nel 1974 sotto la supervisione di John McClure, il producer storico di Bernstein, questa versione CBS che ormai compie quarant’anni resta forse l’edizione di riferimento delle Seconda mahleriana anche per la straordinaria qualità della ripresa sonora: una stereofonia consacrata a una naturalezza timbrica e dinamica che fece epoca e che ancor oggi nessuna tecnologia digita-le ha messo in archivio.
Sinfonia n. 3 Verrett Coro New England Conservatory e Boston Boychor Orchestra Sinfonica di Boston Direttore: Erich Leinsdorf (RCA, 1966)
Watts Coro e Orchestra Sinfonica di Londra Direttore: Georg Solti (Decca, 1968)
A proposito della Terza Sinfonia, Mahler scrive ad Anna von Mildenburg nel 1896: “La mia sinfonia sarà qualcosa che il mondo non ha ancora udito. La natura parla qui dentro e racconta segreti tanto profondi che forse ci è dato di presentire solo in sogno… Mi sento pieno d’orrore quando capisco dove tutto ciò mi stia portando, quale sia il sentiero che la musica è destinata a percorrere, quando penso che a me è toccata la tremenda responsa-bilità di realizzare questa gigantesca missione.” E’ una lettera che ha le sue belle respon-sabilità, poiché molta parte della critica ha ravvisato in essa la coscienza mahleriana di dare alla storia della musica quell’indirizzo che poi avrebbe avuto. Ma la Terza, ascoltata con obiettiva freddezza, non è altro che la summa di un mondo che Berlioz, Liszt e Wag-ner avevano annunciato, sviluppato e risolto almeno mezzo secolo prima. L’atrofia men-tale dell’esegesi musicologica – di cui parlo spesso – qui si palesa in tutta la sua preoc-cupante manifestazione patologica. Non riuscendo ad uscire dal sistema molecolare austro-tedesco non vede, o non vuole vedere altro che il repertorio di quel mondo, inca-ricando un organismo disarticolato, tautologico e fondamentalmente passatista come quel-lo della Terza di tracciare chissà quali nuove vie del futuro. Nello stesso periodo in cui Mahler licenzia la sua Sinfonia n. 3 in Re minore, senza tanta retorica propedeutica, nel silenzio della sua campagna emiliana e con la ferma intenzione di non farli nemmeno eseguire, Verdi compone lo Stabat Mater e il Te Deum, due brani che ancora oggi sono conosciuti molto limitatamente, ma la cui carica rivoluzionaria supera la tanto chiacchie-rata Terza di decenni. Ma tant’è! Detto questo torniamo a Mahler, nella cui lettera l’inciso che riguarda la “gigantesca missione”, a ben guardare, fa tremare per il tragico livello di infantilismo che lo informa, intanto con l’incidere su se stesso le stigmate messianiche di un nuovo redentore; poi per l’arroganza di tale assunto, che confida a un organismo pletorico, prolisso e digressivo il compito di istruire (circa la natura? circa l’amore?) un genere umano disorientato. Una maggiore economia dei propri mezzi espressivi e una maturità più meditata avrebbero permesso a Mahler di realizzare, con lo stesso materiale tematico, uno lavoro più essenziale e profondo. Così com’è, in sei movimenti, di cui il primo e l’ultimo di smisurata lunghezza, la Terza è solo fondamentalmente disgregata: un film del quale conosci la trama, gli attori e nel quale, in modo maniacale, assisti alle stesse scene ripetute con minime varianti, e con un finale che, per quanto appassionante, si annuncia già, compiuto in se stesso, almeno a tre quarti della proiezione. Visto il piglio evangelico, su tale composizione i direttori - a loro volta trasfigurati in gran sacerdoti - sono calati a stormi: poche composizioni consentono infatti a un interprete un pulpito tanto oratorio e rituale quanto quello della Terza. Non a caso, proprio Bruno Walter e Otto Klemperer – che Mahler ben conoscevano - ed Herbert von Karajan - che Mahler interpretò solo sui settant’anni - presero le distanze dalla Terza. Ho, in apertura, citato le produzioni di Leinsdorf e Solti soprattutto per il magistero virtuosistico delle loro orchestre e per l’indubbia capacità di entrambi di stendere questo smisurato arazzo in mo-do che con un colpo d’occhio lo si possa perlomeno intendere nell’eterogeneo disegno.
Sinfonia n. 4 von Stade Orchestra Filarmonica di Vienna Direttore: Claudio Abbado (Deutsche Grammophon, 1977)
Battle Orchestra Filarmonica di Vienna Direttore: Lorin Maazel (CBS-SONY, 1983)
Alla megalitica Terza Mahler avrebbe voluto aggiungere anche un VII movimento, realizzato sulla base di uno dei suoi Lied tratti da quell’archivio che per lui era la raccolta di canti del Corno magico del fanciullo, quello titolato La vita celeste. Grazie a Iddio non lo fece, ma se ne ricordò e lo appose come chiusa di una Sinfonia, la Quarta, per il resto interamente strumentale e fondamentalmente risolta dal terzo enorme movimento, quel Ruhevoll (Tranquillo), che rappresenta uno degli adagi più straordinari del sinfonismo tardoromantico e senza dubbio il più tragico (ben più del celeberrimo Adagietto della Quinta) tra quelli composti dal musicista boemo. L’interpretazione di questa Sinfonia è tra quelle che mettono in maggiore difficoltà soprattutto quegli interpreti che dominano le cattedrali di Seconda e Ottava, uno per tutti Solti, che nell’ultima versione Decca del 1983 cade in un vuoto espressivo pauroso. Persino Karajan, che in genere centra con spietata coerenza il cuore espressivo di una composizione e di un autore, con la Quarta cade irre-vocabilmente, e avvolge una composizione strutturata come un cristallo in una melassa dolente, adattissima a Strauss e alle cifre di un decadentismo totale, ma non al Mahler della Quarta. Bernstein, che in termini espressivi e di calore umano la accosta come nessu-no sa fare, a mio giudizio eccede proprio per queste caratteristiche e ne sovraccarica il trat-to al punto da rendere pesante l’intero disegno. Abbado e Maazel che invece la leggono, punto e basta, raggiungono un risultato di grande chiarezza e soprattutto di grande ele-ganza: poiché soprattutto di raffinatezza e di chiarezza timbrica questa Sinfonia ha biso-gno. Il resto lo fa la musica, così com’è scritta. Del resto, dopo la Quarta, il mondo di Ma-hler cambia radicalmente e imbocca davvero quella strada sulla quale si metterà, guarda caso, proprio il giovane Schönberg, per sfociare poi dove tante volte abbiamo detto.
Sinfonia n. 8 Spoorenberg, Jones, Annear, Reynolds, Procter Mitchinson, Ruzdjak, McIntire Cori vari e Orchestra Sinfonica di Londra Direttore: Leonard Bernstein (CBS-SONY, 1966)
Harper, Popp, Auger, Minton, Watts Kollo, Shirley-Quirk, Talvela Cori vari e Orchestra Sinfonica di Chicago Direttore: Georg Solti (Decca, 1971)
Fino a qualche tempo fa l’Ottava era considerata un obbrobrioso passo indietro di Gu-stav Mahler, una mostruosa caduta sulla via di Damasco. La critica togata ne parlava in camera caritatis con mille distinguo, e non sapeva darsi pace per questo scivolone che Par-sifal-Mahler, lì lì per afferrare il Sacro Graal, aveva fatto. Oggi, invece, rientrati tutti in caserma, dell’Ottava si parla come di un ritorno al passato con varianti di continuità, di una macerazione del genio. Non aggiungiamo nulla, se non il fatto che l’Ottava è tutto meno che una Sinfonia: Cantata, Musica di Scena, Oratorio, Frammenti d’Opera: tutto questo sì, ma non una Sinfonia. Alla prima del 1910 c’era tutto l’empireo della cultura tedesca ad omaggiare il compositore: Siegfried Wagner, Richard Strauss, Thomas Mann, Alfredo Casella, Arnold Schönberg. Oggi per registrarla o semplicemente per produrla a livello concertistico ci vuole un’orchestra smisurata, qualcosa come 8 solisti vocali di prim’ordine, almeno tre cori e un direttore capace di tenere insieme un simile complesso. Ma il gigan-tismo qui non è più solo fonico, è soprattutto teorico, con ambizioni quantomeno cosmi-che. Partito dall’idea di farne una Sinfonia in quattro movimenti, Mahler optò poi per due, con l’Inno “Veni, creator spiritus” e la seconda parte consacrata alla scena finale del Faust goethiano. Che avesse le idee chiare su cosa volesse fare ne dubito. A Mengelberg scrive addirittura che si tratta dell’universo che comincia a emettere musica e suoni. “Non sono più voci umane ma pianeti e soli che ruotano”. L’idea iniziale era quella di raccontare in musica la nascita di Eros, ma finì poi dove in genere finisce sempre la cultura tedesca in questi casi: in braccio a Goethe. Legare la creazione di Eros al Faust non è impresa da poco, ma con i cavilli intellettuali è possibile farlo anche col 42° Canto dell’Orlando Furioso. Me-glio non pensarci dunque ed ascoltare questa follia con animo sereno, nella piena con-vinzione della confusione mentale del suo autore, ormai posseduto da un titanismo escatologico che non lo portò agli estremi esiziali di Schumann e di Nietzsche solo perché la morte lo colse a cinquantun’anni. Si tratta, nonostante questo, di un’opera coraggiosa, sventata, senza più centro focale, riassunto e commento di un secolo di produzione sin-fonica e vocale e, grazie a Iddio, ancora piena di idee, con una perorazione finale in grado di commuovere chiunque abbia un’anima: senza dubbio uno dei vertici della musica di tutti i tempi. Le due letture di Bernstein e Solti, in piena adesione con tale gigantismo, illu-minano ancora oggi, per tensione narrativa e controllo dell’enorme organico, la discografia di questo allucinato capolavoro. A questo punto qualcuno potrà trovare scandaloso che io qui mi fermi, che non continui con le altre Sinfonie, con l’aggiunta di Das Lied von der Erde, delle raccolte degli altri Lieder con orchestra e magari dell’Adagio della Decima. Ma dato che non si tratta di una guida per musicofili mi sembra onesto aggiungere qualcosa per chi non conosce o conosce parzialmente il mondo di Mahler tramite del disco. Vado con un paragone, solo parzialmente calzante, e con questo chiudo e mi spiego dicendo che, sostanzialmente, Mahler sta alla sinfonia come Hugo sta al romanzo: e ho detto Hugo, non Dostoevskij, al quale il nostro compositore sarebbe meglio comparabile: Hugo, invece, per le dimensioni incontrollate, le reiterazioni, l’abuso della nostra pazienza, il cardine retorico-patetico su cui poggia costantemente la sua narrazione. E a Hugo, come al Mahler delle prime quattro Sinfonie, perdoniamo ogni cosa, poiché quello che ci racconta, nonostante tutto, ci avvince, esalta, commuove e scuote nell’intimo. Ma quando – e qui sta il punto – Hugo continua a darci romanzi dalle dimensioni dei Miserabili e tuttavia scritti con uno stile come quello di Joyce in Finnegan’s Wake o di Borges in Ficciones, che accade: li possiamo reggere? Possiamo inoltrarci in migliaia di pagine erme-tiche, decrittare sillogismi, rivelare piani narrativi contraddittori, accettare inesistenti trame e personaggi virtuali? Sì, lo possiamo fare, ma a prezzo di autentiche fatiche, di dedizioni monacali, di esegesi certosine. Ecco, più o meno, è quello che ha fatto Mahler a partire dalla sua Quinta Sinfonia. Ora, io non dissuado nessuno dal procedere a una conoscenza delle enormi composizioni che stanno oltre la Quarta: meritano di essere affrontate, soprattutto l’ultima dolente raccolta di Lieder con Orchestra, Das Lied von der Erde (Il canto della terra), nota soprattutto per l’ultimo dei sei canti, quel Abschied (Congedo) che è il vero, dolce, misterioso testamento del musicista. Sappia però a cosa va incontro. Dal canto mio sono convinto che Mahler, fermo nelle sue convinzioni giovanili, basate sul gigantismo wagneriano come presupposto im-prescindibile dell’opera d’arte, a tale gigantismo abbia poi sbagliato ad applicare un lin-guaggio che era biologicamente alieno a quelle dimensioni, che le trovava estranee a fronte di una scrittura che imponeva innanzitutto strutture molto più ridotte ed essenziali, come Debussy, Ravel e lo stesso Schönberg dimostreranno inoppugnabilmente. Il secondo elemento, che tratterò meglio con Debussy, è quello del linguaggio stesso: del nuovo linguaggio, attorno a cui una larga parte della critica ancora si affatica: per capirci, quel linguaggio che finirà poi per evolvere e diventare politonalità, atonalità, dodecafonia, serialismo, puntilismo e quant’altro si vuole aggiungere, e che in definitiva creerà quello scollamento epocale tra produzione musicale e pubblico, riducendo la musica a una faccenda di categoria, fonte solo di tormento filosofico, strutturale, esistenziale, del tutto lontana dalla sensibilità dell’uomo in quanto persona. Ed è qui che tale processo comincia, con l’inaridimento mahleriano di inizio Novecento: ovvero con un autore che di fatto aveva detto tutto a quasi tutto con le sue prime quattro Sinfonie, ma che continuerà, con spettacolari accorgimenti tecnici, per almeno altre cinque. Ne pagheranno le conseguenze tutti, a partire proprio dal mondo austro-tedesco, che nel Novecento non produrrà più neppure un autore di importanza mondiale, e soprattutto capace di reggere la prova fon-damentale della diffusione discografica. A partire dal secondo Mahler, l’Europa musical-mente si suicida, tre anni prima che lo faccia attraverso gli eserciti della Grande Guerra. La musica emigra soprattutto all’est, in Unione Sovietica, e parzialmente, molto parzialmente, negli Stati Uniti. Il Novecento sarà il secolo degli esecutori e degli interpreti.